Fa un strano effetto star sul punto di entrare nel padiglione uruguayano della Biennale e vedere le tre persone che ti precedono rigirarsi nell’ingresso dopo aver dato una breve occhiata all’interno per uscire immediatamente, tranquillamente, senza la minima esitazione.
Quale opera può suscitare una reazione così immediata? Perché non si tratta nemmeno di rifiuto, i tre visitatori si sarebbero per lo meno scambiati un gesto di negazione. Un cenno di connivenza. A meno che l’opera sia danneggiata? Coperta da un telone o transennata in seguito ad un problema strutturale del padiglione stesso?
Entro. E penetro in una sala bianca in cui invece… non c’è niente.
Per lo meno non vedo nulla sulle prime. O forse sì, ma non distinguo bene. Allora mi avvicino. Inizio a scorgere incollati al muro
dei ritagli di carta bianca su sfondo bianco: forme piccolissime, geometriche, lievissime ricoprono le pareti.
Ma cosa rappresentano? Un paesaggio urbano visto dal cielo? I circuiti di un sistema informatico? Nessuna spiegazione se non la chiara volontà di non mostrare tutto, di botto, al primo sguardo. Devi entrare e guardare. Cercare. Sapendo, o comunque te ne accorgi ben presto, che non vedrai mai la totalità del lavoro anche se ci passi ore filate perché, per esempio, i ritagli vicino al soffitto sono troppo alti.
Ecco, questa calma, questa gentilezza, questa generosità nell’esecuzione dell’opera. E poi questo lavoro ipnotico e concettuale, sì, ma in cui il concetto è organizzativo, organico, non un riferimento esterno a mo’ di giustificazione. Che bella emozione.
Sono rimasto lì. Un po’. Un po’ tanto. Ed ho cercato il cartellino con il titolo dell’opera: Global Myopia di Marco Maggi.
Non c’è ressa in Biennale, al contrario. Né nei Giardini, né nell’Arsenale e tanto meno nei numerosi siti espositivi disseminati per la città dove spesso entri e ti ritrovi addirittura solo, con la ragazza o il ragazzo seduti all’ingresso che trascorrono giornate intere assorti davanti allo schermo del computer. Al punto da non alzare nemmeno lo sguardo o quasi quando entri. Ma non penso che la crisi costituisca un elemento di spiegazione essenziale questa volta. La voce sparsasi su Internet invece, secondo la quale questa Biennale è meno convincente delle precedenti, forse sì.
Di fatto, non sono rimasto entusiasta nemmeno io. Poche sorprese (direi), molti discorsi in compenso, e tanto o meglio parecchio pensare buonista. Vedi benpensante. Tutte le giuste cause sono presenti, dalla triste scomparsa delle api alla condizione delle donne nel mondo e giù con i biotopi in crisi, il post colonialismo, i contrasti sociali fra Nord e Sud, gli effetti della guerra sulle popolazioni innocenti in Siria, in Irak, in America del Sud: certo sei d’accordo, lo siamo tutti fra l’altro. Ma se l’arte ha una funzione di denuncia, avrebbe un impatto maggiore se si concentrasse su soggetti o lotte meno consensuali, mi sembra.
Lì dove invece ci sarebbe da fare un pensiero secondo me, ed un pensiero veramente stimolante, è sul fatto che il curatore sia un africano come Okwui Enwezor. Un uomo nato in Nigeria, paese particolarmente provato, che ha giustamente voluto mettere in risalto i problemi di portata planetare, quindi e soprattutto quelli causati dai paesi ricchi in quelli in via di sviluppo, anziché privilegiare ricerche formali vedi formaliste o comunque a forte connotazione estetica per occidentali privilegiati. Non solo, Okwui Enwezor ha per altro scelto molte opere chiare, d’effetto, un’arte dall’approccio democratico per un pubblico volutamente variegato. E forse più spontaneo.
Purtroppo, però, la rassegna non suscita indignazioni. Né prese di coscienza. Né – nulla che non si trovi già in certi bei lavori di giornalismo politico. È impressionante il numero di opere il cui supporto video o fotografico potrebbe dar adito ad eccellenti documentari, ma che non mi sembra sfoci su installazioni convincenti. Come “The Bell” di Hiwa K, composta da due schermi: a sinistra degli artigiani irakeni stanno realizzando una campana; a destra degli uomini raccolgono residui bellici nel paesaggio devastato del paese, commentando il tipo di razzo, di mitragliatrice o di carrarmato dal quale proviene il metallo con un umorismo straziante. Che con i detriti delle armi i cristiani d’Oriente facciano delle campane per le loro chiese mi sembra un bel gesto di resistenza, vedi di resilienza, anche se l’opera d’arte in questo caso sarebbe piuttosto la campana che non la doppia schermata in Arsenale. Ed in effetti, anche la campana viene esposta. In mezzo. Ma nasce allora il dubbio che i due schermi fungano da illustrazione. Da spiegazione. Per un lavoro in cui l’informazione ha assorbito il resto del lavoro. Ivi compreso, mi sembra, il coinvolgimento dello spettatore.