Andare alla Documenta è ogni volta un’avventura, perché la città di Kassel si trova lontano, perché la manifestazione si svolge d’estate e in Germania, perché soprattutto non sai ancora quali artisti né quali opere scoprirai. Questo a prescindere dagli articoli elogiativi o critici che puoi aver letto prima di partire. Sicché prendi l’aereo o il treno, e senti crescere l’eccitazione.
Per la prima volta però io mi ci sono annoiato. Spesso infatti ho avvertito come un peso l’omogeneità di proposte artistiche minuziose, puntigliose, richiedenti parecchia attenzione interpretativa per enunciare alla fine un messaggio umanista scontato sul modo dell’indignazione. C’è molto pensar bene, e perbene, per gusto mio. Poco coraggio.
E forse, sembra paradossale, non c’è abbastanza ego. La maggioranza degli artisti sembra essere stata scelta in funzione di un posizionamento chiaramente politico ma privo del minimo punto di vista personale. Senza presa di rischio estetico. Né affermazione di un desiderio soggettivo (chi se ne importa se per l’appunto è discutibile, anzi). Qui manca vita!
Certo siamo contro la spoliazione degli ebrei durante la Guerra e la negazione delle culture indigene ai tempi del colonialismo europeo; non penso nessuno voglia oggi difendere il modo in cui i colonnelli hanno istaurato il golpe in Grecia nel 1967 né ci sia qualcuno pronto a difendere lo spopolamento dell’etnia Sámi in Norvegia. Sicché quando, stanco, capiti sull’ennesima proposta benpensante ti viene o un momento di sconforto o un’improvvisa crisi di ilarità. Tipo, per quanto mi riguarda, davanti a The Parthenon of Books di Marta Minujìn allestito nel centro di Kassel ma che ho potuto guardare con attenzione solo alla fine della prima giornata di visita. Per scoprire stupito quanto la struttura di metallo riproducente il famoso tempio ateniese e ricoperta di libri teoricamente censurati, evocatrice quindi degli autodafé nazisti e dell’esperienza personale dell’artista nell’Argentina degli anni bui, comporti invece testi come “Il piccolo principe”, “Il giovane Holden” e innumerevoli best-sellers innocui in molteplici copie identiche per far numero, disposte a volte addirittura sulla stessa colonna!
E come non rimanere un po’ perplessi davanti alla presentazione dell’opera Social Dissonance in cui Mattin ci propone la performance seguente: “Prepara l’audience con concetti, domande e movimenti quali strumenti per esplorare la dissonanza che esiste fra il narcisismo individuale promosso dal capitalismo e le nostre predisposizioni sociali; fra il modo di cui ognuno di noi si pensa libero e provvisto di un potere d’azione, e come invece siamo socialmente determinati da relazioni capitaliste, tecnologia e ideologia. / Rifletti sul legame io/noi mentre definisci la dissonanza sociale. / Aiuta il soggetto collettivo ad emergere”.
A questo punto, o dichiari forfait o cerchi di sottoporre il tuo punto di vista ad un approccio critico. Allora (e con pazienza) mi sono detto, Certo io vorrei scoprire opere più radicali o anche solo più frontali di questa poltiglia consensuale pronta per Instagram o i like di Facebook. Ma, forse, questi lavori propongono invece uno sguardo più congruente alla realtà recente.
In questo caso però come si spiega che non ci siano opere interattive? O che facciano uso delle ultime tecnologie? Perché nessuno parla del cognitive computing e delle sue conseguenze né, più semplicemente, delle opere in 3D? E i social network? E le nuovi prassi di comunicazione che vi si sviluppano?
Sicché, convinto adesso, stacchi e ti guardi intorno. Un po’ incredulo.