Di solito, il curatore o la curatrice di una mostra è una persona – o varie persone, ma aventi un orizzonte estetico comune. Per la prima volta a Kassel, chi ha organizzato la nuova quinquennale d’arte contemporanea è stato invece un collettivo, l’indonesiano Ruangrupa, che ha invitato altri 67 “gruppi ed agglomerati” costituiti a loro volta da collettivi e centri d’arte provenienti in maggioranza dal Global South e poco presenti, molto poco, nel mondo commerciale dell’arte e delle gallerie. Entrando nei vari luoghi di esposizione della Documenta, video, cartelli e supporti didattici di tutti i tipi invitano quindi i visitatori a scoprire ognuno dei collettivi e lo scopo della sua azione artistica, presentando poi il progetto con cui è oggi presente a Kassel. Certo, una o più opere sono subito visibili, spesso però è utile far prima conoscenza con la struttura che le ha generate perché, più che una panoramica della creazione ufficiale e dei nuovi artisti mondiali, questa edizione della Documenta cerca di creare un contatto diretto con gli innumerevoli progetti artistici elaborati da differenti comunità, per i bisogni culturali del proprio gruppo, spesso o per necessità fuori dalle strutture statali, o per lo meno istituzionali.
Dalle associazioni di donne che hanno lottato contro la dittatura (Archives des luttes des femmes en Algérie / Archivi delle lotte delle donne in Algeria) ai centri di espressione per emarginati nella Repubblica Democratica del Congo (Centre d’art Waza), dagli artisti rom che lavorano ad una ridefinizione positiva della loro identità (lo slovacco LGBT Robert Gabris) a quelli come Marwa Arsanios che documentano cinematograficamente gli sforzi per trasformare un appezzamento rurale in Libano in zona collettiva permanente, la Documenta 15 propone un approccio volutamente decentralizzato e sposta l’attenzione dall’artista individuale al gruppo a cui appartiene, e dal progetto di creazione al modo in cui viene concretizzato e recepito. Il cuore dell’esperienza non è di far dialogare le culture fra di loro davanti agli occhi di un pubblico concepito come arbitro delle eleganze ma bensì di presentare, vedi di aprire, spazi artistici e civici in seno a sistemi generalmente ostili. Non a caso, se ogni presentazione richiede una certa attenzione al visitatore e alle volte un’attenzione sostenuta, ogni collettivo ha creato uno spazio espositivo accogliente, avvolgente, spesso chiarissimo, e pure ludico. Pieno di speranza. Libero soprattutto, e ovviamente partecipativo.
Ma l’arte in tutto ciò? Perché il dubbio potrebbe nascere subito. Con il suo corollario di critiche: perché uno dovrebbe informarsi prima di esporsi all’emozione dell’arte? Che tipo di opere possono costituire la presentazione di un archivio o una pratica di ridefinizione culturale? Per quale ragione donne, contadini, borgatari, handicappati, gay e rom sarebbero automaticamente promossi ad artisti? La risposta sta nell’esperienza della Documenta 15. Un’esperienza fra approccio concettuale e partecipativo in cui l’azione di ogni collettivo sposta i nostri criteri di apprezzamento, e crea emozioni nuove. Le istallazioni imperniate sugli archivi, presentati da chi li ha costituiti con testimonianze personali e contestualizzazioni storiche, danno vita in modo vivace alla necessità di riesaminare a volte il passato ufficiale, o spesso solamente taciuto per mancanza di mezzi. Gli ateliers di espressione individuale nelle zone più sofferte di Lubumbashi o Chengdu permettono confronti, e scontri, in cui non è la verità ad essere ricercata, ma la ricerca di una nuova realtà, vivibile, accettata e condivisa nonché della creazione di artefatti che spaziano spesso dall’art brut al recyclart. E per chi rimane insensibile a video, documenti, film e foto, ci sono opere artistiche più tradizionali come i grandi arazzi dell’artista Malgorzata Mirga-Tas in cui l’iconografia della pittura occidentale, come quella di una classica Fuga in Egitto, viene rielaborata con tessuti ritagliati in vestiti portati oggi da donne rom e dando ai vari personaggi sacri della nostra tradizione visi esclusivamente femminili e somaticamente riconducibili al mondo rom.
È forse un caso se il mercato dell’arte ed il mondo delle gallerie non è venuto quest’anno alla Documenta? Più incisivo: come interpretare il piovere di accuse, mesi prima dell’apertura della mostra, da parte di critici, politici e media? Più interessante: è inevitabile la richiesta di un maggiore controllo statale per la prossima edizione della Documenta?
Forse l’interesse maggiore di questa Documenta 15 risiede nella sua incredibile libertà: di gusto, di scelta e di orientamenti per domani, a volte pure apertamente contraddittori. Libertà ma anche coraggio, un grande e bel coraggio che nell’arte di mercato attuale, o politica ma spesso consensuale, non si vedeva più da un certo tempo.
“ Le vent se lève…” : e se il vento si stesse alzando veramente?